giovedì 23 ottobre 2014

Il reato di "opinione ingannevole"

NOTA: sono stata spinta a riesumare questo vecchio pezzo dalla lettera di Flores d'Arcais su MicroMega a proposito della "disputa" Santoro-Travaglio. Non mi schiero perchè non conosco i fatti e i due protagonisti della disputa appartengono entrambi a una categoria di persone che io personalmente non amo, coloro cioè che usano la loro immensa carica di aggressività prima di tutto per "squalificare" gli altrui argomenti, abbiano o no buoni argomenti per farlo. Ma questo con il post che segue non c'entra...  

Non so se è sempre stato così e se in ogni tempo si riscopre questo problema. Certo è che oggi assistiamo a questo inquietante fenomeno: in ogni campo, dalla politica alla scienza, dall’arte alla storia, dalla filosofia alla medicina, si ritiene di potere (quando non di dovere) esprimere la propria opinione.
L’opinione pretende di avere pari dignità della “prova”. Anziché assistere, in presenza di una capacità di raccogliere prove obiettive nettamente superiore al passato, ad un prevalere del dato sul parere, anziché vedere il “fatto” invadere settori che prima parevano appunto patrimonio esclusivo della speculazione, si pretende di eleggere l’opinione a dato oggettivo alla pari con tutti gli altri dati.
Questo atteggiamento priva di validità prima di tutto l’opinione, ancor più che il dato. Un’opinione infatti ha un valore socialmente “accettabile” se è obbligata a basarsi su dati oggettivi. Un’opinione è tale, con tutta la dignità, se pretende di essere fondata. Una volta aperta la strada alla possibilità che sia oggetto di opinione qualsiasi cosa, anche laddove la prova è sotto gli occhi di tutti o è comunque a portata di chi vuole accertarla, l’opinione si svuota di significato, perde il valore propositivo o la forza provocatoria e rinnovatrice che ne faceva la forza. L’opinione esprimibile sempre e comunque è totalmente priva di interesse. In fondo questo atteggiamento impedisce la comunicazione e lo sviluppo di un dibattito, diventa altamente antidemocratico, laddove proclama di voler difendere la libertà di pensiero. La pretesa del diritto di opinione sempre e comunque è una forma laica di integralismo. Altrettanto pericolosa. Per questo ritengo che anziché inserire il reato di negazionismo dovremmo seriamente pensare di introdurre il reato di “opinione ingannevole” che potrebbe recitare così:

“L’opinione ingannevole è qualsiasi opinione che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore le persone cui viene comunicata o che essa raggiunge e che a causa del suo carattere ingannevole possa pregiudicare il loro comportamento ovvero che sia idonea, in quanto ingannevole, a ledere la credibilità del fatto.”

Le persone che, anche occasionalmente (magari telefonando a una trasmissione radiofonica), si rivolgono a un pubblico, spacciando per realtà la loro opinione, anche dichiarando che è un’opinione, sono punite con una pena…

Il negazionismo quindi non deve essere considerato un reato a sé deve appartenere alla categoria dei reati di “opinione ingannevole”. Non può essere ammessa un’opinione che nega un fatto provato.
Per questo ritengo che la libertà di opinione sia stata chiamata in causa totalmente a sproposito, con il solo risultato di snaturare il significato di entrambi i termini: libertà e opinione.


lunedì 24 febbraio 2014

PERCHÈ I NOSTRI CONTEMPORANEI SONO CREDULONI? - Gerard Bronner

IL FALSO NELLO SPAZIO PUBBLICO
  
L’idea che i confini dell’impero della credulità siano stabiliti dall’irrazionalità, la stupidità o la mancanza di cultura è una concezione antica nella storia del pensiero.  La si ritrova negli scritti di Montaigne, di Fontenelle o anche presso gli enciclopedisti, che individuano nell’ignoranza la causa di ogni genere di credenza. Quest’idea autorizza a immaginare una società liberata dalle derive della credulità. Esse resistono, si ritiene, presso popoli primitivi e, nelle nostre società, sono relegate dove gli individui sono poco istruiti (si pensa principalmente al mondo contadino), ma la luce dell’istruzione distruggerà presto quest’ombra opprimente che ha zavorrato il destino dell’umanità. In effetti sono stati in molti a ritenere che il progresso della ragione sarebbe stato in grado di far sviluppare una società dove tutte le forme di superstizione e di false credenze sarebbero state bandite. Paul Bert non dichiarò forse: “Con la scienza non si crederà più ai miracoli, non ci saranno più superstizioni né colpi di stato e rivoluzioni”? Edward Burnett Tylor, il primo antropologo “istituzionale” della storia (nel 1896 occupava la cattedra di antropologia a Oxford), era anche lui dell’idea – perfetta sintesi di molte delle tesi in auge a quei tempi – che la storia sarebbe stata dominata dallo sviluppo, sempre più complesso e razionale, della mente umana. Secondo lui, le credenze, i miti, tutto quello che allontana il pensiero dalla razionalità oggettiva, sono residui dei tempi andati, utili all’antropologo che voglia studiare l’antica struttura del nostro processo cognitivo, ma  condannati a sparire dalle società moderne.
Affermazioni di questo tipo sono quindi molto numerose. Possiamo senz’altro concedere che l’aumentato livello di studi, la massificazione dell’accesso all’informazione e lo sviluppo della scienza hanno contribuito a sradicare dallo spazio pubblico false idee dei più diversi generi.  Per esmpio, per quanto metaforica possa essere la nostra rappresentazione della nascita dell’universo, l’immaginiamo più facilmente come la conseguenza del Big Bang che come risultato della divisione in due di un titano come si narra nell’Enûma Eliš babilonese.
Eppure uno sguardo anche molto superficiale sulla nostra vita collettiva ci mostra la persistenza e addirittura la buona salute della credulità collettiva. Perché le previsioni dei pensatori dell’Illuminismo e di molti di coloro che sono venuti dopo si sono rivelate così sbagliate su questo punto?
E’ opportuno tenere distinte le due questioni: perché le credenze persistono in generale e perché hanno una grande vitalità oggi in particolare. Entrambe le domande sono appassionanti, ma solo la seconda sarà oggetto di questo articolo (1) che mostrerà alcune delle mutazioni del credere in rapporto principalmente al modo in cui i contemporanei hanno accesso alle informazioni che dovrebbero aiutarli a nutrire la loro concezione del mondo.

Il teorema della credulità informazionale

E’ lecito affermare che il mercato cognitivo (2) nelle società occidentali contemporanee è globalmente liberale nella misura in cui, fatte salve rare eccezioni, i suoi prodotti non subiscono tassazioni o censure. Tale liberalismo cognitivo è una conseguenza della stessa democrazia: nel 1789 esso è stato considerato uno dei diritti fondamentali dell’uomo. Esso è autorizzato da decisioni politiche e reso possibile dalle innovazioni tecnologiche. Internet ne è un’emblematica manifestazione. Il liberalismo politico e tecnologico del mercato cognitivo ha come inevitabile conseguenza la diffusione di massa dell’informazione.  Per fare un esempio: nel 2005 l’umanità aveva prodotto nel complesso 150 exabit [1] di dati, una quantità ciclopica; nel 2010 ne ha prodotti otto volte di più! Insomma, si diffonde una sempre maggiore quantità di informazione, tanto che già oggi questo può essere considerato un fatto di portata storica per l’umanità. Ma è lecito chiedersi cosa tutto questo comporti. C’è più informazione disponibile? Tanto meglio per la democrazia e tanto meglio per la cultura che finirà certamente per imporsi.
Tale punto di vista è però troppo ottimista. Vi si suppone che, nella libera concorrenza tra credenze e conoscenze metodiche, le seconde avranno sicuramente la meglio. In realtà, in presenza di una pletorica offerta del mercato, l’individuo può essere tentato d costruire una rappresentazione del mondo mentalmente comoda piuttosto che vera. In altri termini, la pluralità di proposte che gli vengono fatte gli permette di evitare con minimo sforzo i disagi mentali che sono spesso la conseguenza di un processo culturale.
 L’esplosione dell’offerta alimenta il mercato delle proposte cognitive alternative e la loro maggiore accessibilità. La conseguenza di questo stato di cose poco visibile, eppure determinante, è che tutto concorre a far sì che l’inclinazione alla conferma[2] eserciti al meglio la sua abilità nel distoglierci dalla verità. Tra tutte le tentazioni inferenziali che pesano sulla logica ordinaria, l’inclinazione alla conferma è sicuramente la principale nel processo di perpetuazione delle credenze. Se ne trova una descrizione già nell’aforisma 46 del Novum Organum di Francis Bacon:

            “L’intelletto umano, una volta che si sia compiaciuto di certe opinioni (o perché le ritiene vere o perché sono piacevoli) costringe tutto il resto a rinsaldarle o a confermarle; per quanto forti e numerose possano essere le istanze contrarie, non ne tiene conto, le disprezza o le scarta e le rifiuta mediante dei distinguo che conservano intatta l’autorità accordata alle idee iniziali non senza un pregiudizio grave e funesto.”

L’inclinazione alla conferma permette quindi di consolidare qualsiasi tipo di credenza, dalle più spettacolari alle più anodine come le manie superstiziose che si radicano in noi perché selezioniamo solo i casi fortunati che si ritengono favoriti da questo o quel rituale. In sostanza è spesso possibile reperire dati su fatti non incompatibili con un’affermazione dubbia, ma questa non può essere considerata una conferma se non si tiene conto del numero percentuale di fatti che la contraddicono o addirittura si ignora la loro esistenza.
Anche se questa bulimia per la conferma non è espressione di un’obiettiva razionalità ci facilita, in un certo modo, l’esistenza. Un processo di falsificazione è senza dubbio più efficace se lo scopo è quello di cercare la verità, perché diminuisce la probabilità di fare l’errore di considerare vere le cose false. D’altra parte esso esige un investimento di tempo ed energia mentale che può essere esorbitante (3). In realtà gli attori sociali accettano alcune spiegazioni obbiettivamente discutibili solo perché appaiono pertinenti, nel senso che Don Sperber e Deirdre Wilson hanno dato a questo termine (4). In presenza di disaccordo, spiegano, si opterà per la soluzione che produce il maggior effetto cognitivo con il minore sforzo mentale. Dato che le credenze spesso propongono soluzioni che si adattano alla naturale tendenza del pensiero e sono sostenute dall’inclinazione alla conferma, esse producono un effetto cognitivo molto vantaggioso se rapportato allo sforzo mentale richiesto. Una volta accettata un’idea gli individui, come mostrano Lee Ross e Mark Leeper (5), persevereranno nella loro credenza. Lo faranno tanto più facilmente quanto più la diffusione crescente e non selettiva dell’informazione renderà più probabile reperire “dati” che confermano la loro credenza. Uno crede all’efficacia dell’omeopatia? Grazie a un qualsiasi motore di ricerca su Internet e con qualche click, egli troverà centinaia di siti che gli permetteranno di consolidare la credenza. Uno studio condotto nel 2006 si è interessato ai lettori dei blog politici; non è sorprendente che abbia mostrato che il 94% delle 2300 persone interrogate consultano solo i blog che sono in accordo con il loro modo di pensare (6). Equivalentemente, gli acquirenti di libri di argomento politico acquistati su Amazon scelgono sempre più spesso in base alle loro preferenze politiche. Si tratta di una realtà antica come l’uomo che, come l’inclinazione alla conferma, tenendo conto della rivoluzione nel mercato cognitivo, permette di dedurre il teorema della credulità informazionale. Il teorema si fonda sul fatto che il meccanismo di ricerca selettiva dell’informazione è reso più semplice dalla massificazione dell’informazione stessa. Tutto concorre ad assicurare l’imperitura sopravvivenza dell’impero delle credenze. Il teorema può essere enunciato in forma semplice: più il numero di informazioni non selezionate diventerà grande nello spazio sociale più la credulità si propagherà.


Le credenze dominano il mercato cognitivo


Quale punto di vista rischia di incontrare su Internet un internauta senza idee preconcette che si serva di un motore di ricerca Google per farsi un’opinione a proposito di un tema generatore di credenze? Ho tentato di simulare il modo con cui l’internauta medio potrebbe accedere a una data offerta cognitiva su alcuni soggetti: l’astrologia, il mostro di Loch Ness, i cerchi nei campi coltivati (crop circles: grandi cerchi che appaiono misteriosamente, generalmente nei campi di grano), la psicocinesi (7)… Queste affermazioni mi sono parse interessanti dato che l’ortodossia scientifica contesta la realtà delle credenze che esse ispirano. Non è necessario qui porsi la questione della verità o falsità di tali enunciati (forse scopriremo un giorno che esiste davvero un dinosauro con le pinne in un lago scozzese), ma solo osservare la contrapposizione tra risposte che possono rifarsi all’ortodossia scientifica e altre che non possono farlo (ragion per cui io le chiamo per semplicità “credenze”). Esse offrono un punto di osservazione interessante per valutare il grado di visibilità delle affermazioni dubbie.
Ora, i risultati sono senza appello, come mostra la seguente tabella:

Competizione tra credenze e conoscenze in Internet


Numero di siti tra i primi trenta
Favorevoli alla credenza
Contrari alla credenza
Neutri o non pertinenti
Astrologia
28
1
1
Mostro di Loch Ness
14
4
12
Crop circles
14
2
14
Psicocinesi
17
6
7

Considerando solo i siti che sostengono argomenti a favore o contro, si trova, in media, che più dell’80% dei siti, tra le prime trenta pagine proposte da Google su uno dei soggetti, sono credenti. 

Come si spiega questa situazione?

In realtà Internet è un mercato molto sensibile alla strutturazione dell’offerta e ogni offerta dipende molto dalla motivazione dell’offerente. Si scopre che i credenti, generalmente più motivati dei non credenti a difendere il loro punto di vista, vi dedicano più tempo. Il credente vive la credenza come una parte affascinante della propria identità, sentendo perciò l’impulso a cercare nuove informazioni che rinforzino la sua adesione. Il non-credente sarà spesso sostanzialmente indifferente, per rifiutare la credenza egli non sentirà di aver bisogno di altra giustificazione oltre quella della fragilità con cui essa è enunciata. Questa situazione è evidente anche sui forum di Internet dove qualche volta i credenti e i non credenti si contrappongono. Nei 23 forum che ho studiato (considerando tutt’e quattro le credenze) vengono espressi 211 punti di vista, tra cui 83 sono a favore della credenza, 45 contro e 83 sono neutri. Quello che colpisce nel leggere i forum è che gli scettici si contentano spesso di scrivere dei messaggi ironici, si prendono gioco della credenza piuttosto che argomentare contro, mentre i difensori dell’enunciato si servono dei più svariati strumenti per supportare il loro punto di vista (link, video,  frasi copia-e-incolla …). Il 36% dei post che difendono le credenze sono sostenuti da un documento, un link o un’argomentazione articolata, mentre per i “non-credenti” ciò accade solo nel 10% dei casi. Gli uomini di scienza in generale non hanno molto interesse, né accademico né personale, a dedicare tempo a questa sfida; la conseguenza un po’ paradossale di questa situazione è che i credenti, e questo su qualsiasi soggetto, sono riusciti a stabilire un oligopolio cognitivo su Internet e, su alcuni temi (soprattutto quelli che si occupano di rischi: OGM, radiazioni di bassa frequenza, etc.) anche sui media ufficiali che sono diventati ipersensibili alle sorgenti d’informazione eterodossa.
Io non credo che si possa affermare che Internet rende la gente più stupida o più intelligente, ma è proprio il suo modo di funzionare a favorire alcune propensioni della nostra mente e a presentare l’informazione con una struttura spesso non adatta alla conoscenza ortodossa. In altri termini, la libera concorrenza delle idee non favorisce sempre il pensiero metodico e ragionevole.
  
Il mille foglie argomentativo

I rumor e le leggende sui complotti sono per molto tempo stati patrimonio della conversazione: queste storie si tramettevano nello spazio sociale per mezzo del passaparola. Questo in larga misura succede ancora, ma Internet offre loro un nuovo modo di diffusione. Mentre in passato i costi per entrare nel mercato potevano essere elevati (scrivere un libro, scrivere un articolo su un supporto diffuso e distribuito…), Internet permette a chiunque di produrre un’argomentazione accessibile a tutti (sotto forma di un testo, di un’immagine, di un filmato…). Tre sono le principali conseguenze per l’universo della credenza. Prima di tutto Internet abbassa il livello di labilità proprio di un qualsiasi colloquio diretto. La labilità è proprio quello che caratterizza lo scambio di informazioni tra individui come mostrato nei celebri lavori sul rumor di Gordon Allport e Joseph Postman (1947).
In secondo luogo, la stabilità del racconto, resa possibile dalla scrittura, accresce automaticamente la possibilità di memorizzarlo. La disponibilità dell’informazione costituisce una sorta di protesi mnemonica per  l’individuo.
Infine, cosa più importante di tutte, la disponibilità e perennità dell’informazione favorisce alcuni processi di accumulo: un mutuo sostegno tra i vari argomenti della credenza.
I fenomeni di credenza non hanno certamente il monopolio del processo di mutuo sostegno tra informazioni dovuto a Internet. Esso può, per esempio, essere utile quando si tratti di facilitare la coordinazione tra dati sparsi per il mondo sulle malattie rare. D’altra parte, gli stessi meccanismi che favoriscono l’accumulo di conoscenze, contribuiscono alla costituzione di prodotti cognitivi sotto forma di una sorta di mille-foglie argomentativo temibilmente convincente. Prima della rivoluzione del mercato cognitivo operata da Internet, il mito del complotto, quando non dava luogo alla pubblicazione di un libro, era sostanzialmente confidenziale e, potendo fondarsi solo su quei pochi argomenti memorizzabili dai credenti, aveva carattere vagamente folcloristico. Si accusava, per esempio, la marca di sigarette Marlboro di essere alle dipendenze del Ku Klux Klan, portando però come solo argomento il fatto che guardando il pacchetto con una precisa inclinazione apparivano tre K rosse su fondo bianco. Le tre K costituivano la prova dell’influenza del gruppo razzista sulla Marlboro. Un simile argomento, si deve ammettere, è troppo debole per avere una diffusione massiccia e incondizionata. I miti del complotto contemporanei hanno saputo ottimizzare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione per aumentare la loro audience. Leggendo, anche in modo superficiale, i siti cospirazionisti che si occupano di spiegare gli attentati dell’11 Settembre o la morte di Mickael Jackson, si rimane colpiti dall’ampiezza degli argomenti sviluppati. E’ sorprendentemente difficile, per una persona non preparata, replicare razionalmente a un tale numero di pseudo-prove.
La situazione informazionale della contemporaneità fornisce dunque un sostegno tecnico a tutti coloro che vogliono aggregare elementi argomentativi che, separatamente, potrebbero apparire irrilevanti ed essere facilmente invalidati, ma che, mutuamente, formano un corpo argomentativo che è costoso, in tempo ed energia, cercare di ridurre a niente. Anche solo limitandosi, per esempio, ai miti cospirazionisti che pretendono che la versione ufficiale degli attentati dell’11 Settembre sia falsa, si scopre che sono sostenuti da centinaia di argomenti diversi! Alcuni si servono della fisica dei materiali, altri della sismologia o ancora dell’andamento dei titoli in borsa. Per contro-argomentare sarebbe necessario un bagaglio di competenze che una singola persona non è in grado di mettere in gioco.
Sono molte le caratteristiche della contemporaneità informazionale che concorrono a far crescere una democrazia di creduloni, molte cose si potrebbero aggiungere a questo proposito. Avrei potuto aggiungere, per esempio, che la rivoluzione del mercato cognitivo produce una pressione concorrenziale che pone i media ortodossi in una posizione delicata, riducendo automaticamente i tempi di verifica delle informazioni. Avrei potuto mostrare inoltre che questa situazione riduce i tempi necessari all’incubazione di un mito collettivo e accresce quindi il numero di favole che attraversano il nostro spazio pubblico. Sarebbe infine possibile mostrare che i contemporanei non sono indotti a credere necessariamente e incondizionatamente a cose false, ma che la tendenza ad avvalorare visioni paranoidi del mondo è comunque facilitata. Senza dubbio non è estraneo a tutto questo l’emergere di un sentimento di diffidenza di cui testimoniano numerose inchieste condotte nelle democrazie contemporanee: diffidenza nei confronti dei politici, dei media, degli esperti, degli scienziati…E’ vero che la diffidenza che ispira il potere è connaturata alla democrazia, come ricorda Rosanvallon (2006), ma nel braccio di ferro tra democrazia dei creduloni e democrazia della conoscenza, essa viene in sostegno della prima piuttosto che della seconda.

Note dell'autore

(1) Ho trattato la prima dettagliatamente in “L’empire des croyances” (PUF, 2003) e in “Vite e mort des croyances collectives” (Herman, 2006)
(2) Con l’immagine di mercato cognitivo si vuole rappresentare lo spazio fittizio dentro il quale si diffondono i prodotti che informano la nostra visione del mondo: ipotesi, credenze, informazioni, etc. I prodotti cognitivi possono essere in aperta concorrenza tra di loro o, al contrario, in una situazione di oligopolio, o addirittura di monopolio. La misura della più o meno ampia liberalizzazione del mercato è fatta con criteri diversi, il più importante dei quali è la politica.
(3) Come sottolinea James Friedrich in “Primary detection and minimization strategies in social cognition: a reinterpretation of confirmation bias phenomena”, Psychological Review, n. 100, vol. 2, 1993, p.298-319.
(4) Don Sperber e Deirdre Wilson, La pertinence, Communication et cognition, Minuit, 1989.
(5) Lee Ross e Mark Leeper, “The perseverance of bieliefs: Empirical and normative considerations” in Richard Shweder e Donald Fiske, New direction for methodology of bejavioral science: faillible judgement in behavioral research, San Francisco, Jossey-Bass, 1980.
(7) Qui ho solo riportato alcuni risultati, per lo studio completo e il metodo seguito cf. Gérard Bronner, “La democratie des crédules” (PUF, 2013) 
(8) Marc Loriol, “Faire exister une maladie controversée”, Sciences Sociales et santé, 4, 2003.
(9) Veronique Campion-Vincent e Jean-Bruno Renard, Légendes urbaines. Rumeurs d’aujourd’hui, Payot, 2002, p. 369.
(10) Anfossi, “La sociologie au pays des croyances conspirationnistes. Le theater du 11 Septembre”, tesi di master inedito, Strasbourg, 2010.



Gérard Bronner è professore di sociologia e membro dell’Istituto universitario di Francia. E’ specialista in credenze collettive e in  fenomeni di cognizione sociale, sui quali ha pubblicato numerosi libri tra cui “L’empire des croyances” (PUF, 2003), insignito del premio dell’Académie des sciences morales et politiques,  L’empire de l’erreur. Eléments de sociologie cognitive” (PUF, 2007), “L’inquiétant principe de precaution” scritto con Etienne Géhin (PUF, 2010) e  La démocratie des crédules” (PUF, marzo 2013).



La démocratie des crédules

Prefazione

Questo libro si occupa di media, di credenze, di informazione, di Internet…ma che non vi si veda un attacco critico al sistema mediatico che configuri, con seducente indignazione, l’idea di un complotto contro la verità al servizio di una società dominante. Questo genere di teorie sia che si tratti di cospirazionismo che, in modo più sottile, di idee che si autodefiniscono “critiche”, mi hanno sempre dato l’idea di infantilismo intellettuale. Non che i tentativi di manipolazione delle opinioni non esistano, o che il compromesso o addirittura la corruzione siano assenti dal mondo, tutt’altro, ma l’essenziale non è qui.
In un certo senso, la realtà mi appare ancora più inquietante dei miti, per quanto elaborati, che immaginano che il sistema mediatico, mano nella mano con il mondo industriale e il mondo scientifico – o non so chi altro – si mettano d’accordo per allontanare il “popolo” dalla verità. Più inquietante perché i processi che verranno descritti in questo libro che permettono al falso e al dubbio di impadronirsi dello spazio pubblico, sono favoriti dallo sviluppo della tecnologia dell’informazione, dal funzionamento della nostra mente e  persino dalla natura della democrazia…Più inquietante dunque perché siamo tutti responsabili di quello che ci sta succedendo.

Quarta di copertina

Perché i miti del complotto conquistano la mente dei contemporanei? Perché la politica tende a “popolizzarsi”? Perché non si ha più fiducia negli uomini di scienza? Come è possibile che un ragazzo che sosteneva di essere figlio di Mickael Jackson e di essere stato violentato da Nicolas Sarkozy sia stato intervistato da un importante telegiornale in prima serata? Come accade, in generale, che fatti immaginari, inventati, visibilmente menzogneri, riescano a diffondersi, ad avere l’adesione  del pubblico, a influire sulle decisioni dei politici, in una parola,  a forgiare una parte del mondo nel quale viviamo? Vuol dire che non era così ragionevole sperare che con la libera circolazione dell’informazione e l’accresciuto livello di studi, le società democratiche avrebbero teso verso una forma di saggezza collettiva?
Questo stimolante saggio propone, portando numerosi esempi, di rispondere a tutte queste domande mostrando come le condizioni della vita contemporanea si sono alleate con il funzionamento profondo del cervello per far di noi degli sciocchi. E’ urgente capirlo.



[1] n.d.t. 1 exabit = 1018 bits = 1.000.000.000.000.000.000 bits
[2] n.d.t http://www.oilcrash.com/italia/confbias.htm “È un errore caratteristico e sempiterno della comprensione umana l’essere trascinata e coinvolta più dall’affermazione che dalla negazione.” — Francis Bacon

venerdì 21 febbraio 2014

Perchè, da scienziata, sono favorevole a un serio processo di valutazione


Ritengo opportuno sgombrare il campo da quello che mi pare sia un totale fraintendimento a proposito della nostra volontà di accettare (io direi addirittura promuovere) un processo di valutazione della ricerca e della didattica universitaria.

Non solo sono sicurissima che nessuno di noi (intendendo i componenti del Dipartimento di Fisica cui appartengo, ma più in generale i fisici italiani) abbia mai voluto nè voglia sottrarsi alla valutazione, ma ritengo anzi che noi ne siamo stati spesso promotori e sostenitori, consapevoli anche che una seria (riprenderò più avanti questo aggettivo) valutazione avrebbe giocato a nostro vantaggio.

Per inciso è bene non dimenticare che ognuno di noi ha raggiunto il posto in cui si trova avendo passato uno o più concorsi nazionali che sono costati soldi e fatica a esaminati e esaminatori e i cui risultati non possono essere spazzati via.

Questo non significa che il processo di verifica non debba essere periodico e continuo, ma il modo in cui questo processo è portato avanti è tutt’altro che irrilevante.

L’idea di poter affidare a qualsivoglia indicatore numerico, comunque complesso (contorto?) lo si voglia inventare è filosoficamente sbagliata e politicamente scorretta. Inoltre denuncia, questa sì, una scarsa volontà da parte nostra di impegnarsi a prendere in prima persona decisioni difficili. Questo ricorso alla cabala non ci fa affatto onore. Noi sappiamo perfettamente quanto imperfetti (sarebbe forse più giusto dire "totalmente sbagliati") siano questi metodi eppure preferiamo accettarli e spacciarli per “neutrali” piuttosto che prendersi la responsabilità (come hanno fatto prima di noi generazioni di universitari) di giudicare i nostri colleghi e la nostra ricerca.

Mi rendo naturalmente conto che un processo di valutazione “serio” non è facile e che è necessario. Ma a cosa è necessario?  E’ dietro la risposta a questa domanda che sta davvero il motivo “serio” del contendere. Prima di rispondere inquadriamo il contesto in Italia. L’Italia non è da nessuno (fuori dall’Italia) considerata una nazione in cui sia necessario “tagliare” la spesa per l’istruzione e la ricerca. L’Italia è da tutti (fuori dall’Italia) considerata una nazione in cui i laureati sono pochi, la ricerca è scarsamente finanziata e il rapporto docenti/studenti è sfavorevole.

Noi avremmo il dovere di pretendere prima di tutto questo riconoscimento (insieme a quello sostenuto da tutti, fuori dall’Italia, che nonostante le scarse risorse la nostra ricerca è di eccellenza). Quindi a cosa dovrebbe servire la valutazione? Secondo me a individuare “debolezze” certamente, ma non per tagliare bensì per rafforzare.

Può avere un senso, in una nazione civile (che non sia l’Italia) pensare seriamente che se una Università produce pochi laureati allora la si chiude? Non sarebbe più saggio misurare il livello culturale della regione in cui l’Università si trova e decidere (almeno in alcuni casi) che il problema è che le risorse messe a disposizione sono scarse e che viceversa l’Università non dovrebbe essere chiusa, ma rafforzata?

Può avere un senso decidere che un settore di ricerca viene chiuso perché quelli che ad esso si dedicano in Italia hanno mediane troppo basse? Non sarebbe forse più serio impegnarsi a individuare i settori d’avanguardia e decidere di investirvi soldi e persone se esso risulta debole (in qualsiasi modo si decida di misurare la "debolezza")?

La valutazione usata come una mannaia è un imbroglio di cui immediatamente (e preventivamente) diffidare. In genere questo modo di usarla serve a favorire più la furbizia che la cultura e lo sviluppo.

Concludo quindi chiarendo che sono profondamente convinta che chi adesso sta difendendo (non certo noi fisici) queste assurde peripezie numeriche non abbia nessuna reale volontà di veder realizzata una seria valutazione, ma stia semplicemente cercando di distrarre l’attenzione della nostra intera comunità dal fatto che è in atto un processo di smantellamento dell’Università pubblica.