venerdì 21 febbraio 2014

Perchè, da scienziata, sono favorevole a un serio processo di valutazione


Ritengo opportuno sgombrare il campo da quello che mi pare sia un totale fraintendimento a proposito della nostra volontà di accettare (io direi addirittura promuovere) un processo di valutazione della ricerca e della didattica universitaria.

Non solo sono sicurissima che nessuno di noi (intendendo i componenti del Dipartimento di Fisica cui appartengo, ma più in generale i fisici italiani) abbia mai voluto nè voglia sottrarsi alla valutazione, ma ritengo anzi che noi ne siamo stati spesso promotori e sostenitori, consapevoli anche che una seria (riprenderò più avanti questo aggettivo) valutazione avrebbe giocato a nostro vantaggio.

Per inciso è bene non dimenticare che ognuno di noi ha raggiunto il posto in cui si trova avendo passato uno o più concorsi nazionali che sono costati soldi e fatica a esaminati e esaminatori e i cui risultati non possono essere spazzati via.

Questo non significa che il processo di verifica non debba essere periodico e continuo, ma il modo in cui questo processo è portato avanti è tutt’altro che irrilevante.

L’idea di poter affidare a qualsivoglia indicatore numerico, comunque complesso (contorto?) lo si voglia inventare è filosoficamente sbagliata e politicamente scorretta. Inoltre denuncia, questa sì, una scarsa volontà da parte nostra di impegnarsi a prendere in prima persona decisioni difficili. Questo ricorso alla cabala non ci fa affatto onore. Noi sappiamo perfettamente quanto imperfetti (sarebbe forse più giusto dire "totalmente sbagliati") siano questi metodi eppure preferiamo accettarli e spacciarli per “neutrali” piuttosto che prendersi la responsabilità (come hanno fatto prima di noi generazioni di universitari) di giudicare i nostri colleghi e la nostra ricerca.

Mi rendo naturalmente conto che un processo di valutazione “serio” non è facile e che è necessario. Ma a cosa è necessario?  E’ dietro la risposta a questa domanda che sta davvero il motivo “serio” del contendere. Prima di rispondere inquadriamo il contesto in Italia. L’Italia non è da nessuno (fuori dall’Italia) considerata una nazione in cui sia necessario “tagliare” la spesa per l’istruzione e la ricerca. L’Italia è da tutti (fuori dall’Italia) considerata una nazione in cui i laureati sono pochi, la ricerca è scarsamente finanziata e il rapporto docenti/studenti è sfavorevole.

Noi avremmo il dovere di pretendere prima di tutto questo riconoscimento (insieme a quello sostenuto da tutti, fuori dall’Italia, che nonostante le scarse risorse la nostra ricerca è di eccellenza). Quindi a cosa dovrebbe servire la valutazione? Secondo me a individuare “debolezze” certamente, ma non per tagliare bensì per rafforzare.

Può avere un senso, in una nazione civile (che non sia l’Italia) pensare seriamente che se una Università produce pochi laureati allora la si chiude? Non sarebbe più saggio misurare il livello culturale della regione in cui l’Università si trova e decidere (almeno in alcuni casi) che il problema è che le risorse messe a disposizione sono scarse e che viceversa l’Università non dovrebbe essere chiusa, ma rafforzata?

Può avere un senso decidere che un settore di ricerca viene chiuso perché quelli che ad esso si dedicano in Italia hanno mediane troppo basse? Non sarebbe forse più serio impegnarsi a individuare i settori d’avanguardia e decidere di investirvi soldi e persone se esso risulta debole (in qualsiasi modo si decida di misurare la "debolezza")?

La valutazione usata come una mannaia è un imbroglio di cui immediatamente (e preventivamente) diffidare. In genere questo modo di usarla serve a favorire più la furbizia che la cultura e lo sviluppo.

Concludo quindi chiarendo che sono profondamente convinta che chi adesso sta difendendo (non certo noi fisici) queste assurde peripezie numeriche non abbia nessuna reale volontà di veder realizzata una seria valutazione, ma stia semplicemente cercando di distrarre l’attenzione della nostra intera comunità dal fatto che è in atto un processo di smantellamento dell’Università pubblica.


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