Ritengo opportuno
sgombrare il campo da
quello che mi pare sia un totale fraintendimento a proposito
della nostra
volontà di accettare (io direi addirittura promuovere) un
processo di
valutazione della ricerca e della didattica universitaria.
Non solo sono
sicurissima che nessuno di
noi (intendendo i componenti del Dipartimento di Fisica cui appartengo, ma più
in generale i
fisici italiani) abbia mai voluto nè voglia sottrarsi alla
valutazione, ma
ritengo anzi che noi ne siamo stati spesso promotori e
sostenitori, consapevoli
anche che una seria (riprenderò più avanti questo aggettivo)
valutazione
avrebbe giocato a nostro vantaggio.
Per inciso è bene non
dimenticare che ognuno di noi ha raggiunto
il posto in cui si trova avendo passato uno o più concorsi
nazionali che sono
costati soldi e fatica a esaminati e esaminatori e i cui
risultati non possono
essere spazzati via.
Questo non significa
che il processo di
verifica non debba essere periodico e continuo, ma il modo in
cui questo
processo è portato avanti è tutt’altro che irrilevante.
L’idea di poter
affidare a qualsivoglia
indicatore numerico, comunque complesso (contorto?) lo si
voglia inventare è
filosoficamente sbagliata e politicamente scorretta. Inoltre
denuncia, questa sì,
una scarsa volontà da parte nostra di impegnarsi a prendere in
prima persona
decisioni difficili. Questo ricorso alla cabala non ci fa
affatto onore. Noi
sappiamo perfettamente quanto imperfetti (sarebbe forse più
giusto dire "totalmente sbagliati") siano questi metodi eppure
preferiamo
accettarli e spacciarli per “neutrali” piuttosto che prendersi
la responsabilità
(come hanno fatto prima di noi generazioni di universitari) di
giudicare i
nostri colleghi e la nostra ricerca.
Mi rendo naturalmente
conto che un
processo di valutazione “serio” non è facile e che è
necessario. Ma a cosa è
necessario? E’ dietro
la risposta a
questa domanda che sta davvero il motivo “serio” del
contendere. Prima di
rispondere inquadriamo il contesto in Italia. L’Italia non è
da nessuno (fuori
dall’Italia) considerata una nazione in cui sia necessario
“tagliare” la spesa
per l’istruzione e la ricerca. L’Italia è da tutti (fuori
dall’Italia) considerata
una nazione in cui i laureati sono pochi, la ricerca è
scarsamente finanziata e
il rapporto docenti/studenti è sfavorevole.
Noi avremmo il dovere
di pretendere prima
di tutto questo riconoscimento (insieme a quello sostenuto da
tutti, fuori
dall’Italia, che nonostante le scarse risorse la nostra
ricerca è di
eccellenza). Quindi a cosa dovrebbe servire la valutazione?
Secondo me a
individuare “debolezze” certamente, ma non per tagliare bensì
per rafforzare.
Può avere un senso, in
una nazione civile
(che non sia l’Italia) pensare seriamente che se una
Università produce pochi
laureati allora la si chiude? Non sarebbe più saggio misurare
il livello
culturale della regione in cui l’Università si trova e
decidere (almeno in
alcuni casi) che il problema è che le risorse messe a
disposizione sono scarse
e che viceversa l’Università non dovrebbe essere chiusa, ma
rafforzata?
Può avere un senso
decidere che un settore
di ricerca viene chiuso perché quelli che ad esso si dedicano
in Italia hanno
mediane troppo basse? Non sarebbe forse più serio impegnarsi a
individuare i
settori d’avanguardia e decidere di investirvi soldi e persone
se esso risulta
debole (in qualsiasi modo si decida di misurare la
"debolezza")?
La valutazione usata
come una mannaia è un
imbroglio di cui immediatamente (e preventivamente) diffidare.
In genere questo
modo di usarla serve a favorire più la furbizia che la cultura
e lo sviluppo.
Concludo quindi
chiarendo che sono
profondamente convinta che chi adesso sta difendendo (non
certo noi fisici) queste
assurde peripezie numeriche non abbia nessuna reale volontà di
veder realizzata
una seria valutazione, ma stia semplicemente cercando di
distrarre l’attenzione
della nostra intera comunità dal fatto che è in atto un
processo di
smantellamento dell’Università pubblica.
Nessun commento:
Posta un commento